Alla scoperta del Mercato Contadino di Roma e dei Castelli Romani
Riceviamo e volentieri pubblichiamo dal “nostro” fruitore e consumatore consapevole Stefano Sorrentino.
“I sentimenti che suscita nei confronti dei suoi fruitori il Mercato Contadino di Roma e dei Castelli Romani sono di accoglienza, di condivisione di valori, d’immediata empatia, frutto innanzitutto di una relazione che rinvia ad un comune passato ancestrale: quello in cui il tempo delle donne e degli uomini era scandito dall’alternanza delle stagioni.
Nella sua enunciazione di «Mercato Contadino di Roma e dei Castelli Romani» ogni parola contiene una suggestione, un riferimento culturale.
Nella civiltà occidentale contemporanea la parola «mercato» ha finito con lo smarrire completamente il suo significato originale, sino a ridursi a luogo, spesso addirittura virtuale, di puro scambio di merce o di beni immateriali contro denaro, in una realtà astratta e disumanizzata in cui le persone sono state sostituite dalle cose.
Il mercato, tuttavia, è qualcosa di diverso, soprattutto nella nostra cultura, modellata su quella degli antichi Greci e poi dei Romani: prima ancora che un luogo di contrattazione, è uno spazio d’incontro, di scambio di esperienze e di apprendimento reciproco. La cultura occidentale, la stessa democrazia, nascono grazie al mercato, tant’è che la parola greca Agorà e quella romana Foro finiscono col tempo con l’identificare non solo il luogo in cui si vendono le merci, ma in cui si svolge la vita collettiva della città, la diffusione delle idee, lo sviluppo del pensiero, si amministra la giustizia.
Le esperienze delle altre civiltà, soprattutto di quelle a noi più vicine, sono assai simili e basti solo pensare ai variopinti e chiassosi bazar e ai suq del mondo persiano e di quello arabo.
Una cultura, quella del mercato, che dal bacino del Mediterraneo e dalla Persia si è diffusa prima nel centro e nel Nord Europa e poi si è estesa oltreoceano, mentre un percorso assai simile è stato compiuto in Africa e dalle grandi civiltà dell’estremo oriente.
Ovunque la civiltà umana si è sviluppata nei mercati e attraverso i mercati consentendo lo scambio delle merci, ma anche di culture, idee, riti e tradizioni differenti.
Da sempre cultura contadina e cultura cittadina s’incontrano nei mercati e tale incontro è così significativo dall’incidere sulla stessa toponomastica: le varie Piazze delle Erbe, disseminate da Nord a Sud della Penisola ne sono la prova tangibile.
La stessa Roma, al di là del mito fondativo, nasce sull’ansa del Tevere e sui colli circostanti come mercato, crocevia tra i popoli del Nord e del Sud.
Ovunque il mercato è fermento, è vita.
Se la specie umana ha potuto insediarsi e svilupparsi lo deve alla scoperta e allo sviluppo dell’agricoltura che ha affrancato le prime donne e i primi uomini dalla necessità di spostarsi continuamente alla ricerca di cibo.
Se l’uomo del neolitico avesse imboccato una strada evolutiva diversa e non si fosse trasformato da cacciatore-raccoglitore nomade in contadino stanziale probabilmente la civiltà umana non sarebbe nata affatto, semplicemente perché la ricerca del cibo avrebbe assorbito tutto il tempo e le energie. La stanzialità garantita dall’agricoltura ha consentito di allungare il periodo dell’infanzia riempiendolo di contenuti culturali e sociali e soprattutto di prendersi cura dei più deboli: l’antropologa Margaret Mead ebbe un giorno ad affermare che la prima testimonianza di civiltà della cultura antica era un femore rotto e poi guarito: segno tangibile che qualcuno si era fermato ad accudire il malato e procurargli il cibo, senza essere costretto ad abbandonarlo perché non più in grado di seguire il gruppo.
Le scienze, dalla geometria alla biologia, dalla medicina alla meccanica, sono grandemente debitrici verso la civiltà contadina che ne ha rappresentato l’opportunità, la spinta e lo stimolo, oltre che la base.
L’agricoltura è alla stessa base del commercio: se non si ha un surplus di cibo, se non c’è qualcuno che può dedicarsi alla realizzazione di manufatti e oggetti di vestiario, non c’è nulla da scambiare. Solo un’idea distorta di industrializzazione, sviluppatasi negli ultimi due secoli del ‘900, ha reso marginale la civiltà contadina anche per assicurare manodopera all’industria, come attesta il fenomeno migratorio italiano del secondo dopoguerra: una concezione che oggi fortunatamente è
-1- oggetto di revisione critica e vede sempre più giovani riscoprire la civiltà contadina. Sono infatti i giovani, produttori e consumatori, i principali attori del Mercato Contadino di Roma e dei Castelli Romani.
Roma stessa, prima delle due grandi urbanizzazioni della fine del 1800 e del secondo dopoguerra, è stata a lungo una città contadina, con gli orti ed i prati non solo nella campagna romana, oggi per lo più occupata dagli insediamenti abitativi nati tra la fine degli anni ’50 e gli anni ’70, ma entro la stessa cinta muraria, a lambire e spesso sovrapporsi alle antiche vestigia.
È un legame che è vivo ancora oggi nella cucina romanesca e nel linguaggio popolare.
In un pranzo romano che si rispetti, del resto, soprattutto se particolarmente abbondante, non può mancare mai quello che a Roma si chiama «cazzimperio»: l’intingolo di verdure crude con sale, pepe nero e olio extravergine d’oliva citato anche in un sonetto di Giuseppe Gioachino Belli: «Co ssale e ppepe e quattro gocce d’ojjo poderissimo facce er cazzimperio».
Il legame tra Roma ed i Castelli Romani, il nome che a partire dal XIV secolo identifica collettivamente le cittadine poste sui Colli Albani in quello che un tempo si chiamava Latium Vetus, è addirittura più antico della stessa fondazione della città, al punto da entrare nello stesso mito fondativo.
Un legame ancora fortemente presente nella cultura popolare, e non solo popolare, nella quale i Castelli Romani mantengono il loro fascino di luoghi di spensieratezza, convivialità, aria fina, buon cibo e buon vino, e che vede nei Castelli Romani la stessa residenza estiva del Sommo Pontefice.
Il rapporto col Mercato Contadino di Roma e dei Castelli Romani si riempie, peraltro, anche di altri contenuti e di altri riferimenti non meno importanti se lo si legge in relazione alla cucina. Mangiare è un atto culturale ed è, secondo la declinazione del saggista statunitense Wendell Berry, un atto agricolo.
Negli ultimi settant’anni questi concetti così profondamente radicati nella nostra civiltà sono stati oggetto di un’aggressione volta a sradicare completamente il cibo dalla sua cultura, dalle sue origini, dal suo valore, dal suo territorio, riducendolo a pura merce anonima, privandolo della sua anima. Non è esagerato dire che questa operazione, se ha portato all’enorme ricchezza di pochi, ha messo in pericolo la sopravvivenza del Pianeta e della stessa specie umana.
Basti pensare solo ai danni enormi provocati dalla diffusione nell’ambiente di inquinanti destinati all’agricoltura e agli allevamenti intensivi, alla messa in pericolo delle api la cui opera instancabile rende possibile la riproduzione delle specie vegetali.
Il recupero del valore culturale del cibo passa inevitabilmente per il suo approvvigionamento presso fonti rispettose dell’ambiente e del benessere di tutti gli esseri viventi del Pianeta, della salute umana, in uno scambio commercialmente equo.
«La capacità di un cuoco poggia su due pilastri: la conoscenza della materia e dei modi di trattarla nel rispetto della sua natura».
Così diceva tempo fa Gualtiero Marchesi, senza dubbio il più grande Chef della cucina italiana contemporanea ed uno dei più grandi in assoluto.
Per chi cucina quindi, sia a livello amatoriale sia professionale, il Mercato Contadino di Roma e dei Castelli Romani rappresenta una straordinaria opportunità d’inserire la propria fatica quotidiana all’interno di un percorso fatto di saperi, di valorizzazione e di recupero di prodotti autentici che la massificazione del cibo sarebbe destinata a far scomparire, di creatività funzionale agl’ingredienti e mai fine a se stessa.
L’abbondanza di cibo, a lungo sognata dalle generazioni precedenti, ha portato la maggior parte dei consumatori a ridurne la varietà: sembra un paradosso, ma è la realtà che si vive quotidianamente nella grande distribuzione e purtroppo anche in alcuni banchi dei mercati di vicinato in cui l’offerta dei prodotti della terra è sempre uguale, indipendentemente dalla stagione, con un appiattimento che porta a consumare gli stessi prodotti agricoli per tutto l’anno anche a costo di farli arrivare da altri continenti.
Interpretare il cibo in termini di prossimità e di varietà, rispettando il ciclo delle stagioni, è molto
-2- più che un’opportunità di variare il gusto: è mettere il proprio corpo in sintonia con la Natura.
Se ci si riflette solo un attimo la perfezione della Natura è tale per cui ad ogni stagione corrispondono esattamente i prodotti agricoli che più servono a mantenerci in salute.
In estate ci aiutano a fronteggiare il caldo, in autunno ci preparano ai rigori dell’inverno, in inverno rafforzano le nostre difese, in primavera consentono di liberarci delle scorie accumulate.
Spesso inoltre ci si dimentica che il cibo che ci arriva da lontano o da lontanissimo, talvolta da altri continenti, ha dato il meglio di sé al buio dei container e delle celle frigorifere e arriva sulle nostre tavole impoverito, senza contare che per affrontare quel lunghissimo viaggio apparendo ai nostri occhi ancora freschi quei prodotti hanno subito pesanti manipolazioni nella loro coltivazione che necessariamente finiamo col pagare con la nostra salute.
L’autenticità dei prodotti, che il Mercato Contadino di Roma e dei Castelli Romani rende alla portata di tutti senza trasformarli in un lusso di cui può beneficiare solo una piccola minoranza o costringere a faticose ricerche dagli esiti incerti, è il fondamento di una cucina che non sia solo atto materiale di preparazione del cibo o di soddisfazione di un bisogno, ma elaborazione e veicolo di cultura, di un rapporto sano con l’ambiente ed i propri simili.
Crediamo di fare solo un acquisto di prodotti, ma in realtà stiamo acquisendo anche conoscenza, botanica ad esempio, e consapevolezza, armonia con ciò che ci circonda.
Tutte cose di cui oggi, forse ancora più che in passato, abbiamo una vitale necessità per noi stessi, la nostra salute e quella dei nostri cari.
Nel maggio del 1999 Umberto Eco intitolò un breve saggio sul Corriere della Sera: «Questo nostro mondo salvato dai fagioli» e con la sua grande capacità di divulgatore spiegò che se la nostra civiltà era sopravvissuta alle grandi carestie, scampando all’estinzione, era per merito della coltivazione dei legumi.
È un’esperienza che la civiltà occidentale è destinata con ogni probabilità a ripetere: salvare il proprio futuro grazie alla civiltà e alla sapienza contadine.
Tutti prima o poi sentiamo il bisogno di metterci in sintonia con i nostri luoghi ancestrali e c’è una leggenda che rappresenta questo in modo molto suggestivo.
Narra di Ulisse, l’eroe omerico, che tornato a casa dopo mille avventure si sentiva ormai svuotato e voleva ritrovare il proprio essere interiore.
Prese allora alcune povere cose e le infilò in una sacca che si mise in spalla assieme ad un lungo remo dalla larga pala.
Poi iniziò a camminare nell’entroterra.
Giunse in un paese non troppo distante ed un uomo gli chiese: marinaio, dove vai con un remo in spalla?
Lui non rispose e andò oltre.
La stessa scena si ripeté per giorni e giorni, paese dopo paese, sino a che, in un piccolo villaggio, una donna lo fermò e gli chiese: uomo, dove vai con una pala da fornaio in spalla?
Lui le sorrise, posò in terra il sacco ed il remo e si sedette: era arrivato.”